Ricordo quando Sanremo, nei suoi anni d’oro, era il festival della canzone italiana. Era meraviglioso aspettare questo appuntamento, per tutto l’anno, per poter ascoltare il meglio che il nostro paese aveva da offrire. Attorno a questi giorni di febbraio, ognuno ripeteva o fischiettava le canzoni che hanno fatto grande la tradizione italiana. Aveva una magia tutta sua.

E come dimenticare gli straordinari ospiti internazionali? mi ricordo di quando Louis Armstrong partecipò al festival e se ne uscì con la frase: “Ma come? mi pagate così tanto per una sola canzone?“, era il simbolo di straordinari artisti e musicisti che pensavano a fare musica. Ricordo di quando Peter Gabriel cantava “Shock the Monkey” appeso ad una corda, o dei Queen, e tanti altri episodi in cui a farla da padrone era la musica, l’arte musicale.

Cosa rischia di diventare ora il nostro glorioso Festival di Sanremo? Gli appuntamenti fissi stanno diventando ormai, in ordine di apparizione: la polemica sociale o sessista, la lite sui cachet, puntualmente fine a se stessa, e la strumentalizzazione da parte di chi governa la Regione. Sanremo non c’entra con chi sta governando, non è la vetrina del governatore della Regione di quell’anno, non dovrebbe essere la passerella degli amministratori locali. Non è una tribuna politica, è il festival della canzone italiana.

Avendo innumerevoli e diverse occasioni di parlare di politica, mi piacerebbe che il Festival di Sanremo tornasse ad essere quello che è: una manifestazione totalmente apolitica, per niente strumentale, e dedicata esclusivamente alla musica. Mi piacerebbe tornare ad aspettare impaziente il Festival per ascoltare le sue canzoni, vecchia buona abitudine di una volta. Mi rifiuto di credere che non possa tornare.